La rivolta dei pastori non è più chiusa nella sola Sardegna.
I pastori sardi hanno aperto un vero e proprio vaso di Pandora, subito appoggiato dalle comunità agricole situate in tutta Italia.
Le proteste di questi giorni stanno prendendo sempre più piede dal Nord al Sud, portando allevatori e coltivatori ad occupare strade e piazze, a gettare il latte per strada, a ribellarsi ad un sistema che li ha messi irrimediabilmente al tappeto.
La guerra al ribasso sul prezzo del latte di pecora non riguarda solamente questa specie. Anzi, a dirla tutta, non riguarda nemmeno solamente il latte.
La lotta sul prezzo inferiore che azzera i margini di guadagno riguarda tutto il settore agricolo: dalle coltivazioni alla vendita di bestiame, dai prodotti caseari alla trasformazione dei prodotti agricoli.
Ogni giorno che passa, questo sasso lanciato dai pastori sardi continua a trasformarsi sempre più in una valanga.
Come è stato possibile arrivare a questo punto senza che né lo Stato, né l’Unione Europea, né le associazioni di categoria abbiano fatto di tutto per evitare l’impoverimento del nostro settore primario?
Ne abbiamo parlato con Mauro Carletti, allevatore di Cascia (Perugia), con idee molto chiare sul perché l’allevamento è ridotto oggi al lastrico.
D: In questi giorni abbiamo appurato che il problema del basso costo del latte di pecora non riguarda solo la Sardegna. Cosa può dirci sulle cause di questa protesta?
Carletti: “Pensare che il problema sia legato solo al prezzo è errato. Il libero mercato e la libera concorrenza hanno ragione d’esistere se si gioca ad armi pari, non se consideriamo italiani anche prodotti che non lo sono. L’importazione incontrollata e la cattiva gestione del marchio IGP rendono italiani anche prodotti che non hanno origine italiana; questo vuol dire concorrenza incontrollata, e di conseguenza un calo non solo del prezzo, ma anche della qualità.”
D: La protesta si sta spostando in tutta Italia. Quanto siete legati al problema sollevato dai pastori sardi?
Carletti: “Noi allevatori di Cascia ci sentiamo molto legati alla Sardegna. Li consideriamo più che amici, da quando, nel 2017, a seguito del devastante terremoto che ha distrutto l’economia agricola della nostra provincia, ci sono stati regalati capi di bestiame e foraggio per riprendere in mano le nostre aziende. E’ un’antica usanza sarda, la Sa Paradura, che prevede proprio di aiutare i pastori in difficoltà, colpiti da calamità naturali, donando parte del proprio gregge.”
D: La rivolta sta raggiungendo anche la vostra zona. La vostra protesta si muove sugli stessi temi?
Carletti: “Quello del prezzo del latte di pecora è uno dei problemi, ma non il solo. Purtroppo la guerra al ribasso riguarda anche il latte di mucca, nonché gli stessi capi di bestiame, le pecore, gli agnelli, la carne vera e propria; e non posso omettere i prodotti agricoli, le nostre coltivazioni, che richiedono molto impegno e dedizione. Per poter portare avanti un’azienda agricola in Italia si devono fronteggiare prima le tasse, poi la concorrenza interna, poi, e soprattutto, quella esterna”.
D: L’Unione Europea non rappresenta quindi un vantaggio, per voi, nonostante i continui finanziamenti?
Carletti: “Vorrei poter parlare dei continui finanziamenti in maniera positiva, la verità è che si aspettano anni prima di ricevere i rimborsi o gli sgravi fiscali. E non è nemmeno questo il problema maggiore. Vedi, quando sulla confezione di un agnello trovi la dicitura “IGP – prodotto italiano”, bisogna stare attenti e leggere anche il retro dell’etichetta. Spesso quell’agnello non è nemmeno nato in Italia, ma qui è stato trasformato. Basta questo per definirlo italiano. Nel frattempo, però, l’agnello è stato venduto dall’Ungheria, per fare un esempio, ad un prezzo che corrisponde alla metà del mio. E viene definito ugualmente italiano. Com’è possibile competere in questi termini, se nemmeno viene riconosciuta la qualità italiana di una carne?
D: Perché arrivare a gettare il latte?
Carletti: “Per mostrare quali sono le nostre alternative. Il latte è un prodotto deperibile: se non lo vendiamo, possiamo solo buttarlo. Allora abbassiamo i prezzi. Ti dirò di più: il prezzo del latte non è mai stato alzato. Vent’anni fa, quando, seguendo le orme di mio padre, ho intrapreso questo mestiere, il latte costava 800 lire al litro. Ora lo vendiamo 40 centesimi al litro. Forse l’euro ha raddoppiato i prezzi di tutti gli altri prodotti, ma quello del latte è rimasto invariato. Purtroppo, però, è aumentato tutto il resto, soprattutto le tasse. Buttare il latte è l’unico modo per far capire la nostra disperazione. Siamo costretti a vendere il bestiame, a licenziare operai, a dismettere alcune coltivazioni.”
D: L’Italia agricola è ugualmente colpita da questi problemi?
Carletti: “E’ difficile trovare qualcuno che non si lamenti delle condizioni in cui viviamo oggi. Le piccole e medie imprese agricole navigano tutte a vista. Forse solo le aziende più grandi, quelle che possono permettersi di acquistare o affittare grandi porzioni di terreno, hanno la possibilità di abbassare i costi; ma non tutti abbiamo questa forza. Anzi, così facendo, tolgono spazio a noi piccoli coltivatori e allevatori, e non solo. Pensiamo a tutte le attività connesse al settore agricolo, come i trasportatori o i mercati rionali. Le difficoltà arriveranno per tutti, continuando così.”.
D: Quali soluzioni possibili vede a questo stato d’urgenza?
Carletti: “Sono contento di aver visto le istituzioni interessarsi adesso, ma ripeto, questo problema c’è da anni e forse queste dimostrazioni sarebbero dovute arrivare prima di lasciarci in ginocchio. Il problema delle importazioni dall’estero è sicuramente uno dei più gravi da risolvere, soprattutto per avere riconosciuti solo i nostri prodotti come italiani. Questo è un punto su cui c’è molto da lavorare. Adesso attenderemo gli incontri con le industrie per capire come gestire il prezzo e come tutelare il nostro lavoro, si spera una volta per tutte”.
D: Come vede il futuro dell’agricoltura e dell’allevamento?
Carletti: “Come detto prima, navighiamo a vista. In questo momento non riesco a vedere un futuro, e sarà difficile per chiunque vederlo finché la situazione attuale non verrà davvero risolta. Ho due figli, e a nessuno dei due consiglierei, ora come ora, di seguire l’azienda di famiglia – ed è un vero peccato, perché noi amiamo quello che facciamo. L’unico istinto che ho adesso è quello di vendere il bestiame e stare di più con loro, perché non ha senso lavorare senza ottenere nulla, anzi perdendo tempo prezioso per la mia famiglia. Staremo a vedere”.
Pensi che le informazioni presenti in questo articolo siano incomplete o inesatte? Inviaci una segnalazione per aiutarci a migliorare!